Scrivere o non scrivere dei pacs
"Quello dei pacs sta diventando un tormentone. Basta!", mi sento dire anche da alcuni amici particolarmente impegnati in Associazione.
Sarà meglio smettere di parlarne? Sarà meglio tornare ad occuparci dei veri problemi della famiglia, in primo luogo quelli della casa, di un'equa tassazione, di servizi sociali adeguati? Non sarà che a continuare a parlarne "facciamo il gioco del nemico"? Il dubbio è forte, resta il fatto che quella dei pacs è la questione del momento, sulla quale il nostro paese sta ragionando a livello parlamentare con una agenda che dal punto di vista del tempo non sembra lasciare scampo.
Dice Dino Boffo su Avvenire di venerdì 26 gennaio 2007 che "sono le nostre famiglie, la società civile che si riconosce nei valori dell'umanesimo cristiano a dover far diga". A scendere in piazza. Ma come può svilupparsi un'azione politica forte a difesa della famiglia se non c'è una adeguata azione culturale di ri-condivisione dei valori? E come attuarla se non parlandone e discutendone?
Dunque bisogna parlarne. Ora!
Un primo argomento lo trovo nel bisogno di difendere il matrimonio che dà senso alla mia esistenza, perché significa scelta di una condizione di vita chiara, stabile, fondata su una relazione di coppia capace di contribuire in tutti i sensi alla costruzione della società. Significa impegno, dovere, assunzione di responsabilità, riconoscimento pubblico, ma anche prospettiva nel tempo e coniugazione talvolta faticosa di diritti e doveri.
Il matrimonio che riconosce la complementarietà naturale dell'uomo e della donna, e la loro capacità di costruire una piccola società domestica in grado di svilupparsi e rigenerarsi nella procreazione, nell'accrescimento e nell'educazione dei figli.
Il matrimonio e la famiglia, la cui definizione contenuta agli articoli 29, 30 e 31 della nostra Costituzione, sono elementi fondanti della nostra Associazione di Famiglie, inseriti all'articolo 2 del nostro Statuto.
Il matrimonio e la famiglia che costituiscono una solida proposizione di valore per le scelte di vita dei nostri giovani e quindi per lo sviluppo della società.
Un secondo tema è capire il senso e l'esito che può avere questa proposta di cambiamento della società che ha già coinvolto diversi paesi europei con i casi eclatanti di Spagna, Francia e recentissimamente Svizzera (fra l'altro personalmente ho una forte diffidenza nei confronti di tutto ciò che ci viene propinato "perché nel resto dell'Europa si fa così"). E' moda? Risposta ad esigenze reali ed urgenti? Lettura e normazione del cambiamento dei costumi?
Mi sembra troppo semplicistico pensare che ognuno possa fare quello che vuole e che ogni desiderio meriti di essere trasformato in diritto.
Nel nostro paese sembra esserci una certa indifferenza verso l'approvazione di leggi che regolamentano il comportamento individuale. L'atteggiamento comune è che "se male non mi fa, perché no?". Quasi che il "non toccare" la nostra condizione personale potesse rendere queste leggi non rilevanti per noi e per la nostra idea di società. Invece ogni legge costituisce il tessuto con il quale viene costruita la nostra società. Rappresenta norma e modello a cui riferirsi per la formazione del nostro senso di cittadinanza.
Senza avere né studi né titoli per insegnarlo, percepisco però che "il diritto" è trasposizione in legalità di ciò che è stato "vissuto comune"; un vissuto tanto importante da essere portato a proposizione di valore o divieto attraverso le leggi. E che le leggi nel loro complesso modellano la società attraverso norme e proposizioni di comportamento. E dunque la formano.
Ecco dunque che ogni modifica legislativa non può lasciarci indifferenti, né per l'effetto immediato che produce, né per la costruzione del modello societario che implica.
Un terzo argomento che mi sta a cuore è capire chi sono i veri destinatari di questi pacs.
Le "tante" coppie di eterosessuali conviventi more uxorio che soffrono nella loro condizione di non riconoscimento? Non credo. Esse hanno già compiuto una scelta di rifiuto del riconoscimento pubblico della loro unione e se non ne sono più convinti o soddisfatti hanno una soluzione immediata a portata di mano: lasciarsi o sposarsi.
Credo piuttosto che i veri destinatari, e primi propugnatori, siano le coppie omosessuali che in tutto il mondo stanno conducendo una battaglia di emersione della loro identità e dei loro diritti (vedi gli articoli di Dina Nerozzi sul Notiziario Afi e sul nostro sito web) al fine di equipararsi alle coppie eterosessuali.
Ma perché lo Stato dovrebbe occuparsi di riconoscere e regolamentare la relazione omosessuale? Perché non lo fa con altre relazioni affettive come l'amicizia, che pure per alcune persone può essere più importante e profonda dello stesso legame coniugale? Semplicemente perché queste non hanno la stessa rilevanza sociale del legame affettivo che si instaura fra un uomo e una donna e nella stabilità del matrimonio produce effetti sociali fondamentali come la mutua assistenza, la continuità del rapporto, la generazione e l'educazione dei figli come nuovi cittadini.
E questo non può essere la realtà di una coppia omosessuale, a meno che non accettiamo di cancellare il diritto fondamentale dei bambini ad avere una doppia figura educativa di riferimento, maschile e femminile, padre e madre.
Il quarto ed ultimo argomento è perciò il riconoscimento dei diritti individuali.
E' una questione sicuramente importante. Fondamentale nel nostro ordinamento, soprattutto per la salvaguardia dei cosiddetti "soggetti deboli", come i bambini.
Dall'inizio del "tormentone" ne ho sentiti elencare molti, e tra questi proprio i diritti dei bambini. Al riguardo anche i più distratti hanno dovuto ammettere che la normativa è già molto solida, e che se qualche discriminazione ci può essere, spesso a soffrirne sono i bambini delle coppie coniugate che si vedono ad esempio scavalcati nelle graduatorie di accesso agli asili dai bambini delle mamme non coniugate, che la legge ha voluto giustamente proteggere immaginandole sole e quindi a loro volta soggetti deboli.
Credo che ogni diritto individuale presuntamente leso o non riconosciuto vada valutato e se possibile soddisfatto. Senza perdere di vista però la corrispondente, inevitabile assunzione di doveri.
Già adesso ho la sensazione di sopravvivere in una società basata sul privilegio. Non vorrei dover divorziare e diventare "pacsista" per riuscire ad avvantaggiarmi di qualche diritto.
E attenzione: la questione dei diritti individuali è cosa seria, ma non facciamola diventare un "cavallo di Troia" per confondere le unioni di fatto e la famiglia.
Daniele Udali
Presidente Afi-Verona
daniele.udali@afifamiglia.it
Verona, 27 gennaio 2007
P.S.: come spesso accade gli stimoli migliori per decidermi a scrivere mi vengono forniti da Avvenire. Vi consiglio la lettura del numero di ieri e dell'inserto "E' Famiglia", parzialmente disponibile sul web all'indirizzo http://www.avvenireonline.it/Famiglia/
Scrivere o non scrivere dei pacs.